Dopo le rivelazioni dell'ex Mani
Pulite
“Di Pietro propose a Craxi un
patto: lasciare la politica in
cambio dell’uscita
dall’inchiesta”, la rivelazione
di Bobo Craxi
Bobo
Craxi, ha letto le parole di
Gherardo Colombo? “I politici
che avessero accettato di
collaborare e si fossero fatti
da parte, rispetto alla vita
pubblica, sarebbero usciti dalle
indagini”, ha scritto nel libro
che ha pubblicato con Enzo Carra.
Siamo davanti alla prova
generale di colpo di Stato? Il
potere giudiziario ha tentato di
sopraffare il potere politico e
di sostituirvisi. È nelle carte.
Il Procuratore Capo Francesco
Saverio Borrelli a un certo
punto uscì allo scoperto. Con un
messaggio pubblico rivolto
all’allora presidente della
Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro,
fece sapere di essere pronto.
“Sono a disposizione”. Mentre
mettevano fuori gioco la classe
politica, si candidavano a
sostituirla.
Attuarono un golpe bianco, e
neanche tanto bianco, se
pensiamo al “tintinnar di
manette”…
C’è stato un meccanismo preciso
con cui il colpo di Stato ha
provato ad avere successo:
quando hanno provato ad attuare
una “rivoluzione morale”,
evocando la piazza,
surriscaldando gli animi. Il
sovvertimento può avvenire
attraverso le armi, con la presa
del potere militare. Oppure con
la politica, come nelle
rivoluzioni gentili. Oppure, ed
è una via di mezzo, con l’arma
giudiziaria. Una rivoluzione in
parte armata e in parte gentile.
Questo meccanismo si palesò ad
un certo punto delle inchieste.
Quale fu la dinamica?
Fu un’escalation. La trattativa
tra l’accusa e la difesa prima
del processo, nella fase
istruttoria, avvenne in un
momento in cui la cupola
giudiziaria si era arrogata
poteri straordinari. Questo le
ha consentito di parlare di
politica con i politici,
trascendendo dal ruolo naturale
del giudice per ergersi a
elemento regolatore dell’ordine
istituzionale. In quella fase
mio padre, Bettino Craxi,
incontrò una serie di volte
Antonio Di Pietro. In maniera
assolutamente irrituale e
informale.
Fu Di Pietro a chiedergli di
incontrarlo?
Sì. In maniera del tutto extra
legem.
Dove?
Mai al Palazzo di Giustizia,
sempre in modo informale,
discreto, in territorio neutro.
Alla presenza dell’avvocato di
mio padre, Nicolò Amato, senza
altri testimoni; non vi sono
eloquenti tracce verbali
riprodotte nei processi a suo
carico.
Quanti furono quegli incontri?
Furono una serie. Almeno tre.
Tutti lontano da occhi
indiscreti.
In quale fase dell’indagine di
Mani Pulite avvennero?
Nel 1993, prima del processo
Cusani.
Sa cosa si dissero? Suo padre
gliene avrà parlato…
Certo, ne rimase particolarmente
interdetto. Mi ricordo che tra
le prime cose mi raccontò di un
Di Pietro diverso da quello che
si vedeva in pubblico, più
accomodante, perfino mite.
D’altronde i rumori su di lui si
erano fatti assordanti.
Cosa gli chiese?
Di Pietro chiese a mio padre di
restituire i denari
illecitamente percepiti dal Psi,
facendogli capire che se avesse
collaborato con le indagini e
fatto un passo indietro rispetto
alla politica, il suo
coinvolgimento nell’inchiesta
penale sarebbe finito lì.
Cosa rispose suo padre?
Lo mandò a stendere. Per la
procedura irrituale,
inaccettabile. E per la premessa
stessa, che lo offendeva: i
finanziamenti illeciti non
finirono mai nella disponibilità
personale di mio padre. Non li
aveva lui, non li aveva mai
avuti. E dunque non poté che
rifiutare quell’approccio,
quell’apertura di trattativa.
Finanziamenti che pure vi
furono, come disse lui stesso
alla Camera, in quel discorso
del 29 aprile ’93…
Non negó mai la conoscenza di
finanziamenti illeciti. Né
tantomeno si è mai negato il suo
utilizzo nella maggioranza dei
casi palese anzi palesissimo
visto che un partito nazionale
affrontava elezioni a rotta di
collo, che le sue strutture
territoriali erano ben evidenti
ed altrettanto evidente il
collateralismo politico. Un po’
più occulto era il finanziamento
in direzione di partiti o
movimenti politici esteri
sovente in lotta per la libertà
e la democrazia; pratica che
continuo a considerare ancora
molto nobile.
Fece delle ammissioni, rispetto
ai reati contestati, in camera
caritatis?
Craxi diede una serie di
elementi di natura sistemica.
Come poi fece in pubblico,
parlando quell’ultima volta in
Parlamento, chiarì come tutti i
partiti avevano pattuito un
finanziamento non lecito, al
fine di tenersi in piedi. Lo
ribadì anche a Di Pietro, che
però aveva una missione unica:
non quella di capire il fenomeno
in generale, ma quella di
recuperare quello che definiva
“bottino”.
Dal rifiuto di arrendersi di suo
padre nacque la necessità di
arrestarlo, di metterlo a tacere
con l’arma delle manette. Iniziò
quella che Vittorio Feltri aveva
chiamato “caccia al Cinghialone”,
espressione di cui poi si è
pentito.
Già, serviva un trofeo di
caccia. E il trofeo più
importante da esibire per le
carriere di ciascuno degli
attori. Questo accadde più
tardi, quando si capì che mio
padre non sarebbe stato al
gioco. Quando rifiutò la resa. E
allora inforcarono le armi,
provando ad arrestarlo. Siamo
dopo il 30 aprile 1993. Ci provò
un Pm di Roma, Misiani. Ne
incaricarono un ufficiale di
polizia, il maggiore Francesco
D’Agostino, che venne a fare
delle incursioni anche ad
Hammamet, senza riuscire a
portare a casa il trofeo. Ed è
poi finito sotto inchiesta a sua
volta…
Torniamo al Di Pietro della
trattativa. Era latore di una
direttiva, era parte di una
strategia?
Da parte della Procura di Milano
ci fu una duplice tentazione.
Quella di incidere sulla
politica e sulle istituzioni,
costituendo una barriera tra il
vecchio e il nuovo, ma anche
quella di trovare una onorevole
via d’uscita per una inchiesta
che si estendeva a macchia
d’olio ogni giorno di più. A un
certo punto fu chiaro agli
inquirenti che se avessero
applicato con metodo quella
indagine a tutti, partiti,
aziende, enti pubblici, si
sarebbero dovute celebrare
infinite serie di maxiprocessi.
E provarono a tirare una riga?
Provarono a offrire una sorta di
indulto coperto per chi avesse
accettato di cambiare vita,
rinunciando alla politica. Lo
hanno dovuto proporre a tanti,
se non a tutti, se sono arrivati
a parlarne perfino con Bettino
Craxi.
C’è stato un precedente
giudiziario?
C’è stato nell’ambito della
stessa inchiesta Mani Pulite.
Nella prima parte, dal 1992
all’inizio del 1993. La formula
aveva funzionato con alcune
delle aziende coinvolte, dove i
manager si erano dimessi,
avevano collaborato dando
informazioni ed elementi e
avevano accettato di ritirarsi e
di non proseguire nelle
rispettive carriere, o di andare
a vivere per un periodo
all’estero. Ci sono molti casi.
Ma chiedere la stessa cosa ad un
politico eletto
democraticamente, ad un
rappresentante delle istituzioni
è ben diverso…
Ed emerge oggi in tutta la sua
gravità. Ma all’epoca a quei
magistrati doveva sembrare
normalissimo. La classe
dirigente viene rimossa quando
c’è una rivoluzione o quando
arriva un esercito invasore.
Quei giudici si comportarono
così: come rivoluzionari di
piazza o meglio, come un
esercito armato che conquista la
capitale, entra nei palazzi e
spodesta con la forza chi guida
le istituzioni.
La politica ha provato a
resistere. Suo padre Bettino non
si consegnò mai, da vivo.
Mio padre aveva un senso delle
istituzioni che non gli
consentiva di scendere a patti
sulla tenuta democratica, sulla
legittimità degli eletti.
Denunciò da subito gli eccessi
della barbarie giustizialista.
Il golpe riuscì, però, in parte.
Sul piano politico di fatto
imposero un ricambio forzato di
classe dirigente. Diedero
all’avviso di garanzia la
valenza della condanna,
impallinando questo e quello
fino a smontare il Parlamento e
a distruggere cinque partiti.
Quando costrinsero Scalfaro a
sciogliere le Camere si capì che
per un verso stavano vincendo
loro.
E per altri versi?
Beh, dal punto di vista tecnico
l’inchiesta Mani Pulite fu un
fallimento. Non portò mai ad una
conclusione chiara,
accontentandosi di seminare il
panico. Alcuni indagati si
suicidarono. Altri se la
cavarono con l’abiura. Alcuni
processi sono durati dieci anni
e oltre, portando anche a tante
assoluzioni.
Articolo di
Il riformista
Intervista di
Aldo Torchiaro pubblicata su Il
Riformista il 14 aprile 2023 |