Il moralista che ama le Mercedes
Pur non facendo niente di concreto, Antonio Di Pietro riesce
ogni giorno a fare parlare di sé. Di tutto si impiccia,
salvo che delle Infrastrutture di cui è ministro. Il Ponte
di Messina è saltato, l’Alta Velocità ferroviaria è ferma,
il bisogno di case intatto. A Tonino non importa un piffero.
Lui si occupa dei massimi sistemi: gli eccessivi costi della
politica, la moralità dello Stato, la difesa d’ufficio delle
toghe da cui proviene.
Ha preso di mira Mastella per fatto personale. Clemente gli
ha infatti soffiato il posto di Guardasigilli cui aspirava.
Non gliene passa una. Dall’aereo di Stato preso col figlio
per assistere alla corsa automobilistica, all’indulto. Si è
impancato giurando che voli di Stato lui non ne aveva mai
presi. Poi, si è scoperto che li utilizza pure lui.
Sbugiardato, ha fatto il broncetto. Mentire per darsi
un’aria da padreterno, è una costante di Tonino che, a 58
anni, stenta a raggiungere lo stadio adulto.
Anche la storia dell’indulto 2006 è diversa da come la
racconta. Ogni volta che un manigoldo appena liberato sgozza
la vittima di turno, Tonino esclama: «L’avevo detto io». Non
è affatto così. Sulla clemenza ai delinquenti che usano
coltelli e pistole, Di Pietro era d’accordo. Identico a
Mastella, la considerava un ottimo espediente per svuotare
le carceri troppo piene. La differenza tra i due è che l’ex
pm di Mani pulite non voleva l’indulto per i reati
finanziari, societari e di corruzione. Scleroticamente
ancorato al suo passato, odia più i colletti bianchi degli
assassini. È per tenere in galera costoro che l’ineffabile,
nell’estate dell’anno scorso, manifestò davanti Montecitorio.
Pareva una macchietta, ma inaugurò la moda del gabinetto
Prodi: quella di ministri e sottosegretari che urlano in
piazza contro il governo di cui fanno parte.
Di Pietro si è dato al teatro, incapace di fare di più. L’ex
pm ha scoperto a sue spese che è più facile sbattere un
tizio in galera con uno schiocco di dita che ottenere
risultati in politica. Capì l’antifona diventato ministro
dei Lavori Pubblici del primo governo Prodi nel 1996.
Fanatico del decisionismo, rodomonte come pochi, decise di
risolvere in un giorno il cinquantennale problema degli
affitti. Convocò i sindacati a Porta Pia - sede del
ministero - e li catechizzò: «Entro stasera troviamo
l’accordo, domani faccio un decreto legge». Fecero invece
una matassa di lana caprina e non approdarono a nulla. Si
arrivò a una micro sistemazione degli affitti solo due anni
dopo, quando Di Pietro era già fuori dal governo e vagolava
come un’anima in pena. Da allora, appresa la
lezione, Totò fa solo ammuìna. Va in tv, si eccita, fa il viso da matto, spara a
zero. In questo anno e mezzo al governo, ha minacciato di farlo cadere più volte
di quante non abbia sfogliato un libro. Ma è tutta fuffa. Esemplare il suo
atteggiamento nella faccenda Visco-Speciale. Assodato in tribunale che l’attacco
del viceministro ds al generale era stato illegittimo, Totò ha tuonato: «Visco
faccia un passo indietro». Duro come roccia, l’inflessibile ex pm pareva deciso
a esigere le dimissioni del fiscale di Foggia. Tutto il centrosinistra a
disperarsi per la crisi imminente. Bene. Quattro giorni fa, i senatori di Italia
dei Valori - il partito dell’ineffabile - hanno votato compatti fiducia e stima
a Visco. Tonino ha dichiarato euforico: «L’assalto di Berlusconi è stato
respinto». Aveva fatto tana due volte: era al centro dell’attenzione e si era
tenuta stretta la poltrona.
Nessuno crede più alle sue grida. Chi lo conosce meglio, lo snobba più degli
altri. Sono legioni quelli che, fatto un tratto di strada insieme, lo sfuggono
come cosa non grata. Dopo l’uscita di Tonino dal pool di Milano, il suo capo,
Borrelli, precisò: «Mai andati oltre il lei». Il suo responsabile legislativo ai
Lavori Pubblici nel ’96, Mario Cicala, magistrato anche lui, abbandonò
l’incarico dopo appena due mesi. Scomparsi in massa gli illusi della prima ora
che credevano di combattere con l’ineffabile la battaglia della moralità: i
Federico Orlando, i Willer Bordon, i Mirko Tremaglia. Nessuno ha mai detto con
chiarezza cosa li abbia delusi. Ma da un accenno di un ex fedelissimo, Elio
Veltri, si può arguire che a respingerli sia l’inveterata disinvoltura dell’autoproclamato
moralizzatore. La stessa che da magistrato lo spinse ad accettare l’indimenticata
Mercedes e il prestito senza interessi di 120 milioni. Di lui, Veltri ha detto:
«Dall’Italia dei Valori all’Italia dei valori immobiliari». Felice gioco di
parole che ha spalancato un ghiotto scenario di mattoni.
Tonino è titolare di una società immobiliare, la An.to.cri. srl, dalle iniziali
dei figli di primo e secondo letto: Anna, Totò, Cristiano. Con l’aziendina di
famiglia, il ministro delle Infrastrutture ha acquistato due appartamenti. Uno a
Milano di nove vani da Marco Tronchetti Provera e uno a Roma di 10,5 stanze.
Entrambi sono stati comprati con un mutuo, rispettivamente di 300mila e 400mila
euro. Le due case sono state poi oculatamente affittate dall’ex pm al suo
partito - Idv - a un prezzo superiore alle rate dei mutui. Altrimenti detto, con
i soldi del finanziamento pubblico, l’Idv versava al suo leader l’ammontare
mensile del prestito bancario, più una mancetta per le piccole spese, dalle
cravatte per andare a Ballarò, alla tintoria quando deciderà di farci un salto
invece di tenere i vestiti stazzonati. I giornali si sono accorti della faccenda
quest’estate. È parsa poco bella e l’hanno denunciata. A frittata fatta, Di
Pietro ha venduto di corsa gli appartamenti. Ora, è molto liquido e vedremo
quale sarà la sua prossima mossa nel campo del mattone.
Intanto ha trasferito il
quartiere generale romano dell’Idv, affittando l’ex sede Psdi di via Santa Maria
in Via, due passi da Palazzo Chigi. Per un curioso caso, nello stesso edificio
c’è la redazione di Italia Oggi, il quotidiano che ha svelato la gabola dei due
appartamenti. E poiché Tonino urla durante le riunioni di partito le più
interessanti finiscono in pagina a puntate. Certo, questo insieme, è una
maledizione per l’ex pm. Però, se l’è cercata. Nel mondo complesso in cui
viviamo, un conflitto di interessi anche piccolo, come l’intreccio
mutui-affitto-Idv, è sempre in agguato. Ma se a fare il passo falso sono i
moralisti 24 ore su 24, è fatale che i primi a essere travolti dal meccanismo
innescato siano proprio loro. Vale per tutti i moralizzatori della domenica, da
Di Pietro a Beppe Grillo.
Nato nel contado molisano di Montenero di Bisaccia, Tonino fu dirozzato nel
seminario di Termoli dove imparò a bere il latte nella tazza anziché, secondo la
sua leggenda, abbeverarsi alle mammelle della mucca. Prese un diploma di perito
industriale ed emigrò in Germania. Fu assunto da una fabbrica di posate e messo
a lucidare cucchiai. Nonostante lucidasse da dio, decise di tornare in Italia e
profittare delle leggi post ’68 che aprivano indiscriminatamente gli accessi
universitari per iscriversi a 23 anni, lui perito tecnico, alla Facoltà di Legge
della Statale di Milano. Si laureò nei tempi canonici, senza però mai colmare le
lacune nel latino di cui la giurisprudenza è ricca. I suoi sfondoni sono così
esilaranti da aizzare quel bello spirito di Alfredo Biondi, suo collega
parlamentare ed ex Guardasigilli. Biondi, se c’è Di Pietro in Aula o in
commissione, sforna continui brocardi latini unicamente per godersi gli occhi a
palla di Tonino che li scambia per cinese.
L’estraneità alla lingua delle Pandette stava per giocargli un brutto scherzo
anche nel secondo tentativo di superare il concorso in magistratura. Presidente
della commissione era Corrado Carnevale, giudice severo e garantista che subì
poi un calvario perché sgradito alla parte forcaiola della magistratura.
All’interrogazione di Diritto romano, Tonino maltrattò il latino suscitando lo
sdegno del commissario che si pronunciò per la bocciatura. Carnevale, che si era
commosso leggendo il curriculum del molisano - contadino, emigrante, operaio,
etc. - intervenne e gli fece un po’ di domande per metterlo a suo agio. Su
alcune fece scena muta, ad altre rispose in pittoresco dipietrese. La
commissione, imbarazzata, era orientata a fargli ripetere il concorso una terza
volta. Ma Carnevale, dominato dal buon cuore, mise in luce le umili origini e la
buona volontà del candidato. Alla fine la spuntò e Tonino indossò la toga. Cosa
ci abbia fatto, è noto a tutti. Tanto che, anni dopo, Carnevale ripensando al
suo ruolo in quella risicata promozione, disse: «Non lo rifarei mai più».
Da ormai dodici anni, l’ex pm è parte dell’esaltante panorama della Seconda
Repubblica in cui si è intrufolato a forza, scardinando a suon di manette la
Prima. La sua utilità è zero. Resta la consolazione che non sia più magistrato.
Articolo di
Giancarlo Perna pubblicato su "il Giornale" dell'8/10/2007
Di Pietro, quindici anni
di segreti e bugie
«È riaffiorata la tentazione di costruire un dossier aggiornato sul passato
di Di Pietro», spiegava ieri Repubblica, certa che «qualcuno sarebbe già al
lavoro collezionando vecchie inchieste da cui peraltro Di Pietro è sempre uscito
scagionato». Grazie per il suggerimento, anzitutto: ma abbiamo già dato.
Se Antonio Di Pietro nel 1993 deteneva la fiducia del 94% degli italiani, e ora
decisamente di meno, è perché nel mezzo evidentemente qualcosa è successo,
qualcosa è stato raccontato, qualcosa è bastato: perlomeno al centrodestra. Se è
vero infatti che Walter Veltroni riscopre ogni giorno nuove convergenze col Di
Pietro più veemente (persino quello che chiama «magnaccia» il presidente del
Consiglio) d’altra parte invece c’è una sola cosa che l’ex magistrato e Silvio
Berlusconi hanno in comune: entrambi sono stati indagati, più volte, ed entrambi
alla fine ne sono usciti illesi. Giudichi il lettore, o l’elettore, chi la
magistratura abbia voluto proteggere.
Sta di fatto che le sentenze che hanno riguardato Di Pietro, diversamente da
quelle berlusconiane, rimangono pressoché sconosciute: non sono state
infinitamente sezionate e sottotitolate e stampate e ristampate dai soliti
fotocopisti di cancelleria, ma sono sentenze lo stesso, anche se Repubblica
decide di chiamarle «fango» come ha fatto ieri.
Per fare un esempio: oggi ci sono giornalisti che ancora si chiedono, o chiedono
a Di Pietro, perché a suo tempo lasciò la magistratura. Eppure è tutto nero su
bianco: e lo è sia nelle sentenze di non luogo a procedere vergate dai gup
Roberto Spanò e Anna Di Martino a beneficio di Di Pietro (peraltro in
contraddizione tra loro su alcuni episodi) sia nel successivo giudizio di
tribunale vergato del presidente Francesco Maddalo il 29 gennaio 1997: una
sentenza che superò le precedenti perché fece seguito a un pubblico dibattimento
con esibizione di prove e audizione di parti.
Qualcuno lo ricorderà: è il processo in cui Di Pietro dapprima balbettò e poi
rifiutò di rispondere alle domande del pubblico ministero. L’ex magistrato
oltretutto non presentò appello, sicché la sentenza «fa stato quanto ai fatti
accertati», come si dice in gergo.
Per farla breve: il Gup Anna di Martino, che pure fu molto attenta alle ragioni
del magistrato, spiegò che se Di Pietro fosse rimasto in magistratura sarebbe
andato incontro a pesanti sanzioni disciplinari. Il giudice Francesco Maddalo,
nondimeno, parlò di «fatti specifici che oggettivamente potevano presentare
connotati di indubbia rilevanza disciplinare». Sono le vecchie storie di Gorrini,
D’Adamo, i prestiti da 100 milioni frettolosamente restituiti in scatole da
scarpe o avvolti in carta di giornale, faccende di Mercedes rivendute a prezzo
maggiorato, roba celata nel torbido dimenticatoio di chi ha fondato il suo
movimento sulla trasparenza e sulla legalità, anzi sui «valori».
Eppure il Di Pietro che da magistrato si offrì di interrogare Berlusconi dicendo
«Io quello lo sfascio» (come raccontato dal suo ex Procuratore Capo) è
immortalato in una sentenza che nessun libro, di nessun servo di Procura, ha mai
riportato: «Decisiva appare l’intenzione di Di Pietro di intraprendere
l’attività politica ovvero di ottenere incarichi pubblici di maggior rilievo»
(pagina 167 della succitata sentenza Maddalo). «Altri eventi evidenziano
chiaramente questo sempre più marcato orientamento di Di Pietro ad assumere
iniziative e posizioni più confacenti ad un esponente politico che a un
magistrato \ Particolarmente arduo è separare una condotta antecedente alle
preannunciate dimissioni da una condotta a queste successiva» (pagina 170). «Il
desiderio di lasciare l’incarico giudiziario nel momento di massima popolarità
non poteva non essere funzionale e strumentale ad un successivo sfruttamento di
questa popolarità, proprio in vista di quella progettata attività politica
(pagina 177)».
Domanda: ma Di Pietro, quando decise di indagare Berlusconi, aveva già deciso
di dimettersi per buttarsi in politica? Risponde ancora Maddalo a pagina 179:
«Le dimissioni, allora, dovevano già essere ampiamente maturate e in fase di
imminente attuazione». E perché Di Pietro non disse niente ai colleghi del Pool?
Pagina 180: «I contatti e colloqui politici \ avrebbero potuto inquinare quella
sua indiscussa leadership all’interno e all’esterno del Pool».
Questa peraltro è la parte nobile. Perché poi, benché ritenuti privi di valenza
penale, a dimostrare la moralità di Di Pietro ci sono pure i seguenti piccoli
favori, appurati anch’essi da svariate sentenze: 1) 100 milioni senza interessi
dall’imprenditore inquisito Gorrini, poi restituiti con assegni circolari poi
incassati e avvolti in carta di giornale poco prima di dimettersi, nel 1994; 2)
100 milioni senza interessi dall’imprenditore inquisito D’Adamo, denaro
restituito nel 1995 in una scatola da scarpe messa agli atti; 3) periodiche
buste di contanti sempre da D’Adamo; 4) centinaia di milioni, ottenuti dagli
imprenditori Gorrini, D’Adamo e Franco Maggiorelli, per i debiti contratti
dall’amico Eleuterio Rea al gioco d’azzardo; 5) una Mercedes CE da 65 milioni
ottenuta da Gorrini e rivenduta all’amico avvocato Giuseppe Lucibello per una
cifra poi utilizzata da Di Pietro per comprarsi una Fiat Tipo bianca; i soldi
sono stati restituiti con assegni circolari emessi nel maggio 1994 ma incassati
nel novembre successivo, prima delle dimissioni; 6) una Lancia Dedra per la
moglie di Di Pietro da parte di D’Adamo; 7) l’utilizzo di una garçonnière dietro
piazza Duomo, di proprietà di D’Adamo, fino all’inizio del 1994; 8) l’utilizzo
di una suite da 5-6 milioni al mese pagata da D’Adamo, a partire dal 1989, per
almeno un anno e mezzo, al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto; 9)
l’acquisto di un appartamento a Curno con soldi forniti da Gorrini; 10) la
disponibilità di un appartamento a canone gratuito, fornito da D’Adamo, per il
collaboratore Rocco Stragapede; 11) i pacchetti di pratiche legali dalla Maa di
Gorrini per la moglie; 12) le consulenze legali da D’Adamo per la moglie; 13)
l’impiego per il figlio, due volte, alla Maa di Gorrini; 12) i benefit vari da
D’Adamo: vestiario di lusso nelle boutique Tincati, Fimar e Hitman di Milano, un
telefono cellulare per sé, un telefono cellulare per l’amico Rocco Stragapede,
almeno quindici biglietti aerei Milano-Roma, un mobile-libreria per la casa di
Curno; 13) i benefit vari ottenuti da Gorrini: ombrelli, agende, penne,
cartolame vario, viaggi in jet privato per partite di caccia in Spagna, Polonia
e nella riserva astigiana di Giovanni Conti, alcuni stock di calzettoni al
ginocchio.
Eccolo qua Antonio Di Pietro, l’uomo che giusto ieri si richiamava «allo
spegnersi della coscienza civica, della morale, dell’etica», l’uomo che di
Berlusconi cita «gli innumerevoli processi» senza mai menzionare i propri,
l’uomo che di fronte al consenso di cui Berlusconi gode nel Paese, in una
lettera scritta al suo mentore Beppe Grillo proprio ieri, ha parlato di «una
situazione simile a quella dei ragazzi nei Paesi del Sud che ammirano il
camorrista o il mafioso locale». Eccolo lo spauracchio che secondo Veltroni
doveva tenere sottotraccia quei grillisti e forcaiolisti che coi loro strepiti,
ora e invece, soffocano le velleità di ogni sinistra che voglia essere civile e
sintonizzata con il Paese reale.
I giornalisti tutto sommato lo amano: le sue sgangheratezze fanno colore e
titolo in giornate calde e vuote come queste. Lui straparla sempre di monopolio,
ma è tra i più presenti in televisione e in assoluto l’ospite più invitato a
Matrix, per esempio. Nessuno ricorda più le sue 500 querele, o quando nel 1996
disse che avrebbe preso «a schiaffi e pedate chi mi ha indotto a dimettermi dal
ministero dei Lavori pubblici», o le sue folli proposte circa il «decreto
cautelare di rettifica» o altre norme punitive contro i giornalisti.
Nessuno ricorda mai quando Di Pietro, nel dicembre 1994, a Curno, prese a
testate un giornalista dell’Ansa dopo averlo riempito di calci e di pugni.
Nessuno gli chiede più conto, per quanto la vicenda sia recente, dell’acquisto
di due appartamenti pagati con un mutuo che risultava inferiore all’affitto
frattanto versato dalla sua Italia dei Valori: in pratica Di Pietro comprava
case grazie al finanziamento pubblico. Nessuno, del resto, bada al fatto che il
partito dell'Italia dei Valori appartiene a Di Pietro per statuto notarile, e
così pure tutti i finanziamenti pubblici. Nessuno dedica servizi a un
personaggio che straparla di democrazia e però neppure ora (con l’8 per cento
dei suffragi) si dimostra capace di inventarsi una struttura, un numero 2, un
gregario, un volto spendibile e alternativo al suo. Gli unici nomi noti sono
quelli di chi l’ha regolarmente mollato: da Pietro Mennea all’ex fidatissimo
Elio Veltri (che lo sosteneva dal 1988 e ora gli spara contro a ogni occasione)
sino a Valerio Carrara, l’unico parlamentare dipietrista eletto nel 2001 e che
pensò bene di passare al Gruppo Misto prima ancora che si insediassero le
Camere; e poi ancora Rino Piscitello, Federico Orlando, Milly Moratti, Sergio De
Gregorio, persino Paolo Flores D’Arcais: «Gente che ha capito il personaggio e
ha preso le distanze» ebbe a commentare Veltri. In compenso, chiuso all’angolo,
resiste Veltroni.
Articolo di Filippo Facci pubblicato sul Giornale del 30 giugno 2008
Telefonata intercorsa tra
Antonio Di Pietro e Carlo De Benedetti
ore 10:31 del 19 novembre 1995
(dagli atti del Tribunale di Brescia):
Di Pietro :
‘Pronto?’
De Benedetti :
‘Dottor Di Pietro?’.
D.P. :
‘ Sì...’.
D.B.
: ‘Non...l’ho
svegliata?’.
D.P.
: ‘No...assolutamente,
come va innanzitutto?’.
D.B.
: ‘Sono Carlo De
Benedetti, bene’.
D.P.
: ‘Sì...l’avevo
riconosciuta benissimo, come va...che piacere sentirla’.
D.B.:
‘Bene, bene...
anch’io’.
D.P. :
‘Noi, a questo punto, ho capito che abbiamo tanti amici
comuni’.
D.B.
: ‘Eh, ne abbiamo tanti
... sicuro’.
D.P .:
‘Tanti amici comuni, con cui lavoriamo insieme’.
D.B.
: ‘Bene... e Prodi è
uno di questi... no?’.
D.P.
: ‘Prodi è uno di
questi, sì, in questo momento, pensi, sono davanti al
computer’.
D.B.
: ‘Sì’.
D.P.
: ‘Eh, sto scrivendo
un’affettuosa lettera di... e... attenzione verso Prodi, che
credo farò con Scalfari pubblicamente, perché lui più volte
mi sta tirando in ballo in questi giorni e voglio
raccomandargli discrezione e serenità, ma lo faccio in modo
molto cordiale’.
D.B. :
‘Sì, ma quando...ehm... il suo progetto va avanti?’.
D.P.
: ‘Il nostro
progetto... il nostro, eh sì, il mio progetto va avanti,
sta, stiamo lavorando... ma quando avremo modo di parlarne,
poi gliene preferisco parlargliene a voce’.
D.B.
: ‘Con grande piacere’.
D.P.
: ‘Sì’.
D.B.:
‘Quando lei vuole, io,
ho piacere anch’io...’.
D.P.
: ‘Sì’.
D.B.
: ‘Di... qualche, anche
perché secondo me ci vuole un’accelerazione dei tempi’.
D.P.:
‘Credo che ci sia
un’accelerazione in tanti sensi, devo dire che anche noi
stiamo facendo parecchio, anche poi...grazie ad amici
comuni, insomma ecco...’.
D.B.
: ‘Uhm...uhm... senta
una cosa, poi ne parliamo perché mi interessa anche sapere
la sua idea... su questa pseudo o finta entrata di Romiti’.
D.P. : ‘Eh... non lo so se poi è pseudo o
se è finta (sic!)...credo che sia una variabile...anch’io ci
sto riflettendo...Eh...eh...eh... per certi versi
interessante, per certi versi uhm.. come si può dire...uhm’.
D.B.:
‘Conturbante’.
D.P.
: ‘Conturbante...
conturbante, perché credo di capire dove vuole andare a
virare’.
D.B.
: ‘Mah...le dirò... io
penso che tutto qu... io mi sono convinto di quello che una
volta anche lei mi ha detto, e cioè che bisogna evitare il
partito-azienda, ora questo...’.
D.P.
: ‘Eh... sì’.
D.B.
: ‘Quello di Berlusconi
è una cosa del tutto anomala, però... in fondo, io trovo che
tutte le invasioni di campo...’.
D.P.
: ‘ Mah... quello...
che partito azienda è azienda potere, quindi...’.
D.B.
: ‘Quindi è una cosa
diversa infatti’.
D.P.:
‘Ancora un po’
più...più’.
D.B.
:’Al peggio, in
quanto...’.
D.P.
:’ Que...qui siamo...’.
D.B. :
‘Senta, quando lei ha un momento mi telefoni che ci vediamo
settima... settimana prossima senz’altro me ne farò carico’.
D.P. :
‘Grazie dottore’.
D.B. :’ Grazie
a lei, arrivederci’.
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