"...è socialista quella società che riesce a dare a ciascun individuo la massima possibilità di decidere la propria esistenza e di costruire la propria vita..."

(Riccardo Lombardi)

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Hammamet, l'ultima intervista a Craxi

Doveva essere un libro-intervista sulla mancata unità a sinistra, sul perché oggi l’Italia è l’unico paese europeo dove non c’è un vero partito socialista.

Non ci fu il tempo per farla. Bettino Craxi nelle estati tra il 1997 e 1999, quando lo incontrai ad Hammamet , forse pensava che ce ne sarebbe stato  ancora  per un viaggio nella memoria del duello tra Pci e Psi. L’ultima volta che lo sentii nell’ottobre del 1999, pochi giorni prima del suo ricovero all’Hopital Militaire, aveva una voce rauca e stanca. «Una bronchitella», disse, sbrigativo. Quanto a quell’ultima intervista: «Ora mi ci metto giù, con la biro, come Pietro Nenni». Craxi le interviste autorizzate le dettava. Allora, ero un inviato di politica dell’Unità, attualmente sono giornalista politico parlamentare di Panorama.  Senza che potessi registrare né prendere appunti ecco però le riflessioni e i ricordi che, a più riprese, in maniera incompiuta e volante mi regalò sulla terrazza dell’Hotel Sheraton con sullo sfondo le note di “Mambo number five” di Lou Bega, la canzone che impazzava in quelle estati lì,quando non era  di moda andare ad Hammamet. Dove Bettino commentò la scomparsa di lady Diana (31 agosto ’97), che aveva conosciuto nelle visite uffciali da presidente del Consiglio, con un affettuoso: «Povera figlia», aggiungendo: «Ma si è capita la dinamica dell'incidente?». Quanto ai comunisti, ecco come li ricordava.  Enrico Berlinguer? «Io credo alla fine che all’origine di quei suoi attacchi nei miei confronti ci fosse la rottura consumata con il padre socialista». Massimo D’Alema? «Io e lui siamo accomunati solo dall’essere figli del partito della partitocrazia». Walter Veltroni? «Lui è un’altra cosa: fa parte del  partito di Scalfari-Caracciolo-De Benedetti». E i miglioristi, quelli ritenuti più vicino a lui? «Ma se anche Gerardo Chiaromonte  mi diceva: tu Bettino non capisci il valore della rivoluzione mondiale dall'Urss a Cuba...».
Era la sera del 4 settembre del 1999, l’ultima sera che lo incontrai. Mi congedò dicendomi: «Un giorno sarà Occhetto a spiegarmi quello che combinò Claudio Martelli contro di me». Per un paio d’ore Craxi intorno a un tavolo al quale si erano uniti alcuni militanti e ex parlamentari socialisti, turisti non per caso ad Hammamet, espose ragioni e origini del suo anticomunismo.
 

Presidente Craxi, dove prese la sua prima tessera?
«Alla sezione del Psi di Lambrate a Milano, dove c’era ancora un ritratto di Stalin, pensa tu… Ma fu durante un viaggio a Praga nel ’54, che incominciai ad avere i primi dubbi sul comunismo. Un’immagine mi si impresse per sempre negli occhi. Quellla di un giovane che mi fermò ad un angolo della strada e mi disse: qui non c’è libertà, c’è uno stato di polizia. Io che pure da giovanissimo mi ero letto tutto Marx, Engels, Lenin e credevo ancora nella rivoluzione, tornai in Italia con tanti dubbi in testa».

E cosa fece?
«Divenuto un dirigente del movimento giovanile socialista, ebbi un dissenso con Pietro Nenni (il leader autonomista del Psi dalla cui parte il giovane Craxi era schierato ndr) proprio sull’atteggiamento dei socialisti verso i paesi dell’Est.  Accadde dopo l’invasione sovietica in Ungheria nel ’56. Io mi spinsi  fino a chiedere l’uscita del movimento giovanile socialista dalla federazione internazionale dei giovani comunisti. Li tenni  una notte intera su una paginetta che conteneva una riga dove c’era scritto che non ne dovevamo più far parte. Li presi per stanchezza e la spuntai, ma sull’Avanti quella riga non fu riportata. Chiesi il perché a Nenni e lui mi rispose: manda una lettera all’Avanti. Io gliela mandai. Pensai: anche se non la pubblicano almeno la mia richieta resta agli atti. In quegli anni ero rimasto colpito da uno scritto del laburista inglese Col, secondo il quale nessun uomo può essere uguale all’altro, al massimo può essere quasi uguale. Mi azzardai a dirlo in una riunione di partito e apriti cielo, tutti si scagliarono contro di me».

Lei fu accusato dal Pci di aver cambiato patrimonio genetico al Psi, tradendo Francesco De Martino, il segretario che la precedette alla guida del partito e che aveva lanciato la formula degli  «equilibri più avanzati», vale a dire: il Psi non andrà più al governo senza l’unità con il Pci. Come risponde a queste accuse?
«Alle elezioni del ’76 il Psi toccò il suo minimo storico prendendo solo il 9,6%.
Ma poco dopo, in un sondaggio che commissionai appena diventato segretario, il partito era già crollato al 6%. Io presi in mano un partito che rischiava di morire e gli ridetti ossigeno e vita».

Lei fu alla guida dei quarantenni che congiurarono contro De Martino la mattina del 12 luglio ’76 a Roma all’hotel Midas, dove fu eletto segretario del Psi a 42 anni?
«Quella mattina io non sapevo che sarei diventato il nuovo segretario del Psi. In  realtà la mia candidatura  nacque dal fatto che Giacomo Mancini decise di sbarrare la strada a quella di Giolitti, che puntava alla  segreteria. Mancini si mise di traverso e sono uscito fuori io…Ma non è vero che ero contro De Martino, che aveva già deciso per conto suo di dimettersi dopo la sconfitta elettorale. Un episodio inedito lo dimostra…».

Quale?
«Ricordo che quando uscimmo dalle consultazioni  dal capo dello Stato Giovanni Leone al Quirinale, De Martino mi disse: parla tu. Ma come tu non  parli?, gli chiesi, sbalordito. Fu lì che capii che si voleva dimettere».

Si sentì con il vento in poppa?
«Erano tutti quarantenni i dirigenti alla guida del partito (Enrico Manca, Claudio Signorile, Gianni De Michelis ndr). Un vantaggio, ma  anche uno svantaggio. Mi dissi: questi durano, il rischio è che si vada avanti per cooptazione senza poter rinnovare la classe dirigente. Il pericolo è creare una nomenclatura bloccata, sclerotizzata».

Questo quanto ha influito nella vicenda giudiziaria che ha travolto il Psi, una vicenda in cui  lei viene perfino accusato di arricchimenti personali?
«Basta con questa storia! Io possedevo la casa in affitto di Via Foppa a Milano e ora ho solo la casa di Hammamet . Lo vedi la vita sobria che io e la mia famiglia facciamo qui…».

Ma lei pensa che la deflagrazione del suo partito sia solo frutto di accanimento giudiziario, che pure c’è stato, o anche di problemi legati alla struttura della classe dirigente?
«Nel Psi c’era una struttura diversa dal Pci il quale aveva fondi esteri, provenienti dall’Urss fino agli anni ’80, e strutture pesanti, meno leggere di quelle del Psi. Dove c’erano capicorrente, gente che agiva anche per conto personale, che utilizzava i fondi  per le proprie campagne elettorali». Pausa, sospiro: «E chi li controllava quelli? Avrei dovuto mettere la Guardia di Finanza dentro il Psi..Figuriamoci!».
Io,  Enrico e la rottura su Moro

Niente di più sbagliato pensare di trovare un Craxi animoso e furente contro il Pci e il suo segretario Enrico Berlinguer. Da politico a tutto tondo, molto più pacato e riflessivo di quanto la vulgata giustizialista lo descriveva in quegli anni l’ex premier socialista lucidamente ragionava sulla distanza anche psicologica che c’era tra lui e il suo avversario a sinistra. Quello che conobbi nelle ultime estati di Hammamet era un Craxi che ancora si interrogava sul perché il segretario comunista lo combattè con tanta  durezza. Certo anche lui con «Enrico» non andò per il sottile: al congresso del Psi di Verona nel 1984, poco prima che Berlinguer morisse, il segretario comunista fu accolto da una salva di fischi. Craxi avallò: «Se sapessi fischiare, fischierei anche io». Ma da qui a dare del «bandito», come fece Antonio Tatò, il portavoce di Berlinguer, all’avversario Craxi ce ne correva.  Per l'ex leader e premier socialista da parte di Berlinguer c’era  un’avversione nei suoi confronti che andava oltre il normale scontro politico. E che poteva persino avere una qualche origine psicoanalitica.

Si è dato una spiegazione degli attacchi che le mosse il segretario del Pci Enrico Berlinguer?
«Più volte mi sono interrogato sulle ragioni di quella sua profonda avversione nei miei confronti. Enrico ed io ci conoscevamo fin da giovani. Quando ero segretario del movimento giovanile socialista lui venne a Milano per un incontro dei rispettivi movimenti giovanili. Mia moglie Anna con la quale mi ero appena sposato andò a prenderlo al treno. Lui poi ruppe, ma fino a un certo punto con l’Unione sovietica, anche se all’Urss creò non c’è dubbio problemi. Ancora me lo chiedo perché si incattivì così tanto contro di me. Ma mi sono ormai dato questa spiegazione: le ragioni credo che vadano cercate anche in questioni relative alla psicologia e alla storia personale di Berlinguer. Lui veniva da una famiglia nobile, socialista e massona, quando decise di diventare comunista consumò un atto di rottura profonda con i suoi. Evidentemente il suo rapporto con me, il suo antisocialismo risentiva della rottura consumata con il padre. Io mi sono alla fine convinto che sia così».

Qual è l’accusa che la ferì di più?
«Fu quando Enrico arrivò a dire che i socialisti tranne Sandro Pertini, non avevano fatto molto per la Resistenza. Mi colpì, mi ferì, ci restai male, perché noi abbiamo avuto esiliati, martiri…».

Ma la vera rottura tra lei e  il segretario del Pci avvenne sul caso Moro.  Cosa successe in quei giorni?
«Io ero a favore della trattativa per liberare Aldo Moro. Il Psi prese contatti con  Lanfranco Pace (l’obiettivo era liberare lo statista dc in cambio della scarcerazione della brigatista Paola Besuschio che non si era macchiata di reati di sangue ndr). Ho ancora vivissimo il ricordo di un iincontro con Berlinguer in una sera di quei terribili 55 giorni  nel cortile di Palazzo Chigi. Io uscivo, lui invece entrava per andare a incontrare Andreotti. Lo vidi da lontano e decisi subito di affrontarlo. Lui si appoggiò a una colonna per ascoltarmi. Gli dissi: «Guarda Enrico, voi prendete pure la vostra posizione, d’accordo, io non dico niente, ma a me lasciami fare… Lui mi rispose secco che  lo Stato andava difeso, che era in gioco la sua sicurezza… come se io fossi ignaro di quei concetti. La cosa mi offese.  E pensare che in quei 55 giorni si svolse solo una riunione collegiale dei segretari di partito, si andò avanti per incontri separati».

Con chi nel Pci ebbe i migliori rapporti?
«Paradossalmente gli amici miei nel Pci erano quei vecchi stalinisti di Giancarlo Pajetta e Armando Cossutta. Con Pajetta negli ultimi anni soprattutto stabilii un bel rapporto. Ricordo un incontro che ebbi con lui a casa di Gianni Cervetti (l’ex  leader dei miglioristi milanesi ndr). Non a caso ho una bella collezioni  di  dipinti di Mafai (il pittore padre della compagna di Pajetta Miriam Mafai ndr).

Ma non erano i miglioristi, l’ala destra del Pci, quella da sempre considerata filosocialista, i suoi migliori amici a sinistra?
«Con Gerardo Chiaromonte avevo un ottimo rapporto. E però anche lui alla fine delle nostre conversazioni mi rimproverava con un : "Sì, sì Bettino, ma tu non capisci il senso della rivoluzione mondiale, quella dall’Urss a Cuba" . E se questo lo diceva anche un riformista come lui ti cadevano le braccia. Con Emanuele Macaluso parlai una sola volta in un gruppetto di deputati nel Transatlantico di Montecitorio. In realtà Macaluso ha sempre avuto un filo diretto con Rino Formica, loro due sono una specie di ditta».

Ricordi e riflesioni sulla mancata  unità a sinistra.
Craxi frugando nella memoria aveva ancora netto il ricordo di un incontro avuto con Enrico Berlinguer, poco prima che il Psi, dopo il periodo dell’unità nazionale con il Pci che dette di fatto un sostegno esterno alla Dc, tornasse ad appoggiare governi guidati dallo Scudocrocuato. Era il periodo nel quale si svolse ll’incontro alla scuola quadri del Pci alle Frattocchie tra i leader del Pci e del Psi, che suscitò molte attese per l’unità a sinistra.
Perché quell’occasione naufragò?
«Ci vedemmo prima delle Frattocchie a casa di Paolo Bufalini (altro leader migliorista del Pci ndr). Enrico mi propose di fare l’alternativa di sinistra . Ma io gli risposi: guarda che io e te insieme andiamo sotto, riusciamo solo ad arrivare al 40%…».
Eppure solo un anno prima, nel 1978 al congresso socialista di Torino lo slogan era quello dell’alternativa di sinistra…
 «Io dissi che l’alternativa di sinistra era  possibile solo in una chiarificazione da parte del Pci relativa ai suoi rapporti di ordine internazionale con l’Unione sovietica, l’ alternativa era possibile solo in un riequilibrio dei rapporti di potere tra Pci e Psi. Ma in realtà non ci credevo tanto».
Allora perché lo fece?
«Lo feci  anche perché non avevo ancora la maggioranza  nel partito, dove la sinistra premeva per l’alternativa di sinistra. Poi si è visto come è andata a finire: come si presentò l’occasione : Claudio Signorile (leader della sinistra del Garofano ndr) al governo si accomodò e come! Io l’unità a sinistra certo che la volevo, ma con un maggior peso del Psi. Io lo dovevo salvare il mio partito: rimasi colpito da uno schemino che Giulio Andreotti aveva lasciato sul tavolo dopo una riunione …».
Che c’era scritto?
«Dc più Pci. E il Psi?, trasalii. Il Psi era stato cancellato».
Eppure i segretari del Pci  nei momenti  clou non esitavano a venirla a trovare…
«Ricordo che Achille Occhetto venne da me quando Alessandro Natta era malato a chiedermi di appoggiarlo se fosse succeduto a lui nel ruolo di segretario. E  Natta, a sua volta, prima che si ammalasse era venuto a trovarmi per chiedermi un parere sulla possibilità che gli succedesse il giovane Occhetto, l’ex ragazzo di bottega di Michelangelo Notarianni».
Come andarono i suoi incontri con Occhetto sull’unità a sinistra?
«Gli dissi: Achille faccio prima a fare l’Unità socialista che a rubarti due milioni di voti. Lui tornò in Via del Corso (sede del Psi ndr) e mi disse: «Bettino, mi dispiace ma la maggior parte del mio partito preferisce un rapporto con la Dc. Fu allora che «Occhetto si alleò con quella parte del Psi che era contro di me».
Che spiegazione si è dato?
«Evidentemente Achille già avvertiva l’arrivo di quella sarebbe stata la valanga giudiziaria.  Credo che il Pds  i giudici li abbia assecondati per la paura di restare travolto. Le toghe rosse hanno creato un enclave all’interno del Pci-Pds-Ds. La verità è che il mio nemico numero uno fu la Dc…Quanto al no di Occhetto all’unità socialista, un giorno chiederò proprio a lui che ruolo ebbe anche Claudio Martelli nel suo ripensamento».
Un altro importante momento che fece sperare in un passo in avanti nell’unità tra Pci Psi fu al congresso dell’Ansaldo a Milano quando lei ricevette nel famoso camper Massimo D’Alema e Walter Veltroni. Che ricordo conserva?
«Suggerii ai due di chiamarsi socialisti».
Che opinione si è formato dei due eredi dell’ex Pci?
«Veltroni, secondo me più che dei Ds fa parte di un altro partito: quello di Scalfari-Caracciolo-De Benedetti. Lui vuole il Partito democratico, staccarsi dalla tradziione socialista».
E di D’ Alema che ricordo e opinione ha?
«Ha da venì Baffone dicevano i vecchi comunisti, e invece guarda un po’ è venuto Baffino…( Scherzò Craxi con ironia tranchant su D’Alema divenuto presidente del Consiglio nell’ottobre ‘98 ndr) . Io e D’Alema siamo accumanti da una sola cosa: siamo figli del partito della partitocrazia. Quando è diventato presidente della Bicamerale,  gli ho mandato un biglietto consigliandogli di non tenere insieme le due cariche di leader di partito e di presidente della Bicamerale. Gli ho scritto che il partito ne avrebbe risentito. In politica queste non sono mai buone scommesse. Quel biglietto glielo ho fatto avere da miei emissari, lui non mi ha mai risposto».
Lei è stato il primo a porre il tema della Grande Riforma, ovvero il rinnovamento delle istituzioni, lo snellimento dei lavori  parlamentari, l’elezione diretta del capo dello Stato. Perché poi lei sembrò abbandonare quella strada?  Prevalse il compromesso politico con la Dc o cos’altro?
«Ma non ti ricordi che per avere sostenuto per primo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica mi raffiguravano nelle vignette nei panni di un gerarca fascista  con il fetz e gli stivaloni?».
Ma intanto per Romano Prodi  presidente del Consiglio, ad essere controproducente era proprio la Bicamerale che bollò come «Bicamerale del nulla», per spezzare la possibilità di dialogo tra Pds e Berlusconi, che venne bollato come «l’inciucio». Il Partito democratico era  lontano, e già impazzava il conflitto tra prima e seconda gamba dell’Ulivo, cioè tra post comunisti e post dc. Il governo D’Alema (Ottobre ’98) era alle porte, ma Craxi guardava lontano e pronosticò per gli anni a venire: «Prodi è un furbacchione di tre cotte, vedrai alla fine li metterà tutti nel sacco». Al governo, dopo la vittoria dell’Ulivo nel ’96, gli ex comunisti ritornarono con lui 10 anni dopo nel 2006. Ma solo per una breve stagione.

Intervista di Paola Sacchi pubblicata su Panorama il 18 gennaio 2013